Nella tradizione tibetana viene dato valore allo stato di passaggio chiamato “Bardo”. Bardo è una parola usataspesso, ma non solo, riguardo al passaggio da una vita all’altra, ma bardo significa: stato intermedio tra il compimento di una situazione e l’insorgere di un’altra. Non è difficile capire che si può benissimo applicare anche alle prime settimane di gravidanza. È molto importante attraversare i momenti di bardo con lucidità poiché sono grandi opportunità per accedere alle domande più profonde su noi stessi che affiorano proprio quando i ruoli che ci siamo ritrovati a ricoprire nella vita, vengono a mancare.
Così è alla fine della gravidanza, quando il fatto di aspettare un bambino è diventato “normalità”. Sembra che la mente nella ripetitività, nella durata, si rassicuri. Quella che prima era la novità, il fatto di aspettare un bambino, ora è diventato familiare.
Ma sembra che in questa vita ci sia vietato trovare appoggio in una situazione visto che, come il Buddha afferma, tutto è impermanente. Proprio nel momento in cui tutto si è normalizzato ecco che la data del parto si avvicina e subentra nella donna quel sentire che troppo frettolosamente chiamiamo “paura” e cerchiamo di sedare con la promessa del parto con analgesia epidurale o con un cesareo programmato. In realtà la donna si trova nuovamente in una situazione che sta per finire, tra poco non sarà più in gravidanza, ma al tempo stesso non sa cosa voglia dire essere la madre di un bambino che non è più dentro di lei. Ma è veramente paura o somiglia molto alla paura? Perché nessuno si accorge che, oltre a quel sentire che la futura madre chiama “paura”, c’è anche attrazione, c’è fascino per il parto? E che somiglia molto a quelle situazioni a cui teniamo tantissimo (non parleremmo d’altro!), che aspettiamo, ma allo stesso tempo non sappiamo come accadranno? È intimorita, non impaurita: un pericolo ci fa paura, mentre affrontare l’incognita del travaglio e del parto intimorisce, a meno che qualcuno non ci abbia insegnato che è pericoloso, e quindi ad averne paura.
Ma sembra che in questa vita ci sia vietato trovare appoggio in una situazione visto che, come il Buddha afferma, tutto è impermanente. Proprio nel momento in cui tutto si è normalizzato ecco che la data del parto si avvicina e subentra nella donna quel sentire che troppo frettolosamente chiamiamo “paura” e cerchiamo di sedare con la promessa del parto con analgesia epidurale o con un cesareo programmato. In realtà la donna si trova nuovamente in una situazione che sta per finire, tra poco non sarà più in gravidanza, ma al tempo stesso non sa cosa voglia dire essere la madre di un bambino che non è più dentro di lei. Ma è veramente paura o somiglia molto alla paura? Perché nessuno si accorge che, oltre a quel sentire che la futura madre chiama “paura”, c’è anche attrazione, c’è fascino per il parto? E che somiglia molto a quelle situazioni a cui teniamo tantissimo (non parleremmo d’altro!), che aspettiamo, ma allo stesso tempo non sappiamo come accadranno? È intimorita, non impaurita: un pericolo ci fa paura, mentre affrontare l’incognita del travaglio e del parto intimorisce, a meno che qualcuno non ci abbia insegnato che è pericoloso, e quindi ad averne paura.
Beatrice Benfenati